Opera presente alla collettiva di arte contemporanea “Dal cielo alle tenebre women 2021, Silvia Plath
presso il
MOA Museum of Operation Avalanche di Eboli (SA)
dal 18 dicembre 2021 al 09 gennaio 2012
Presentazione dell’opera
“Io sono il fantasma di un suicidio infame” è questo il ‘grido’ che riecheggia nell’opera qui proposta.
A soli otto anni Sylvia Plath ha dovuto fare i conti con la morte di suo padre che credeva di combattere contro il cancro e invece era affetto da una grave forma di diabete. L’Autrice si descrive come una novella Elettra, la cui visita alla tomba paterna diviene spunto per Elettra sul sentiero delle alzalee, 1958.
La sua vita e la sua opera, tormentate da tragedie e delusioni continue, sono fortemente influenzate dal tema della Morte. La poetessa rimasta orfana di padre vive questa perdita come una forma di abbandono e di tradimento che si rinnova quando si separa dal marito con il quale vive un amore malato. Il primo tentativo di suicidio in preda a un forte stato di depressione risale al 1953. Dopo 10 anni, l’11 febbraio 1963, si toglierà la vita e in quell’atto per converso rappresenterà un’idea di morte come affermazione del sé, gesto supremo di conquista, per quanto doloroso, un momento irriducibile di libertà.
“È andato bene per vent’anni, quello svernare come se tu non fossi mai esistito”, nel testo la poetessa ammette di aver trascorso vent’anni ignorando l’accaduto, addirittura negando l’esistenza del padre, e paragona questa fase della sua vita a un lungo inverno, che ha avuto termine quando si è “svegliata sulla Collina del Cimitero”.
Numerosi gli spunti del testo che si ritrovano osservando il dipinto. “nessun fiore penetra il terreno. Questo è il Sentiero delle Azalee”. “L’artificiale salvia rossa non si muove nel cestino dei sempreverdi di plastica che posano sulla lapide accanto alla tua, né marcisce, sebbene le piogge dissolvano una tinta sanguigna: i petali del surrogato gocciolano, e gocciolano rosso”. E poi ancora, “il mare piatto si è tinto di porpora come quella stoffa maligna che mia madre ha srotolato al tuo ultimo ritorno a casa”.
Sullo sfondo di una gelida atmosfera, dove svetta un cipresso sempreverde in forma di croce antropomorfa e gocciole di sangue piovono riversandosi in un fiume “tinto di porpora”, che scivola come una “stoffa maligna”, emerge in modo quasi prorompente e sensuale la fisicità di una donna, usata ed abusata, annientata nella sua interiorità, deturpata da “gonfiori” innaturali, accompagnata da avvoltoi e sanguisughe ai confini tra la vita e la morte. Una donna che non esita a mostrare le sue fragilità, le sue ferite d’amore (i cuori trafitti tatuati sulla pelle), che rifiuta l’apparenza di un volto, l’illusione della bellezza mondana, e vince il dolore e l’effimero con il coraggio della sua sensibilità ricorrendo al gesto estremo del suicidio. La sua anima però non riesce a librarsi perché resta ancorata alle “radici” del dolore.
Non c’è un Oreste che possa assicurarle la salvezza (la separazione dal marito) così l’Elettra-Sylvia indirizza il suo desiderio di morte verso di sé. Il linguaggio del testo poetico è fortemente metaforico come quello del pittore che sembra rappresentare il momento in cui la figlia vince la morte per amore e si ricongiunge al padre. “ Oh perdona colei che bussa alla tua porta implorando perdono, padre – la tua cagna da caccia, figlia, amica. È stato il mio amore che ci ha portati entrambi alla morte”.
Una visione onirica condotta con realismo espressionista senza retorica. Sublimati gli effetti naturalistici, le figure diventano simbolo, apparenze enigmatiche slegate da ogni contingenza (“Nessuno è morto o si è indebolito su quel palco”), disincarnate ed atemporali. La luce tersa e cristallina (“Tutto ha avuto luogo in un durevole biancore”) accende l’intensità del cromatismo, la cornice lapidea dipinta non respinge ma attrae l’osservatore in una altra dimensione dove l’istante e il divenire si fondono.